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LA PEDAGOGIA DELLA CURA NELLA PREVENZIONE AL CYBERBULLISMO (a cura di: Dott.ssa Sonia Marengo)

La pedagogia della cura non è legata alla cura medica del soggetto (to cure), bensì al prendersi cura (to care) del bambino, del ragazzo, dell’adolescente e anche dell’adulto, sotto vari aspetti, per avere un approccio multidisciplinare, solido e strutturato che aiuti il soggetto a togliersi dallo stato di crisi in cui è bloccato e per aiutarlo a ritornare a pensare, a pensarsi e a ri-pensarsi in chiave educativa ed emotiva.

Nella pedagogia della cura, legata alla prevenzione di episodi di cyberbullismo, il pedagogista va a toccare principalmente due dimensioni, che vanno affrontate insieme:

  1. L’educazione al digitale: comprende un insieme di regole condivise da adulti e ragazzi, a scuola e in famiglia, per arrivare ad un uso più consapevole degli schermi e degli strumenti digitali. Ci tengo a sottolineare due cose: la prima è che la tecnologia non è né buona, né cattiva, ma è solo uno strumento e come tale va usato con responsabilità e consapevolezza. La seconda è che noi adulti facciamo spesso fatica a dare regole sul digitale perché noi stessi siamo i primi a non aver ricevuto un’educazione digitale. Noi abbiamo avuto un cellulare in mano a venti o trent’anni anni e poco dopo è arrivato il mondo dei social, il web, le chat dei genitori, le riunioni online, lo smart working, ecc… un vortice frenetico a cui noi adulti abbiamo dovuto abituarci in fretta senza che nessuno ci spiegasse come relazionarci con la tecnologia. E di conseguenza le regole da dare ai ragazzi le stiamo “inventando” seguendo il nostro buonsenso e il nostro stile educativo: a volte riusciamo abbastanza bene, altre volte non siamo così efficaci e le regole date, nel tempo, si perdono. Visto che noi siamo stati i primi a subire passivamente questa accelerazione tecnologica, diamo la possibilità ai nostri ragazzi di crescere in una cornice digitale più chiara, sicura e confortevole.  Questo insieme di regole, non è fisso e unico, ogni famiglia, ogni classe è libero di dare risalto agli aspetti che meglio crede. Fondamentale è far capire ai ragazzi che i loro comportamenti online, possono avere delle gravi ripercussioni onlife (nella vita di tutti i giorni) e che ogni azione nel mondo virtuale ha sempre una ricaduta sul mondo reale: Soprattutto in un periodo così delicato come la preadolescenza e l’adolescenza, in cui il ragazzo inizia a crearsi un’identità sociale, che oggi va di pari passo con l’identità digitale e la “web reputation”. Bisogna insegnare a pensare prima di agire, valutare le conseguenze delle nostre azioni e provare a mettersi nei panni dell’altro “come se stesse succedendo a me”.
  2. Questo insieme di regole, non deve essere come il codice di Hammurabi con 282 leggi incise sulla pietra, bastano anche poche regole, l’importante è che siano:

    • Chiare: creano una cornice ben definita nella quale i ragazzi possono muoversi e nel frattempo sono contenuti (es: alle 21 si spengono tutti schermi, non si usa il cellulare a tavola, si risponde ai messaggi sempre in tono gentile, ecc.…)
    • Condivise: per avere regole efficaci, è necessario l’accordo fra entrambe le parti, attraverso spiegazione, discussione e mediazione delle regole, in modo che vadano bene ad entrambi. Dove non c’è condivisione, le regole durano poco.
    • Rispettate da tutti: se noi siamo i primi a non rispettarle, usando scuse come: guardo il tg, una mail di lavoro, ecc.…, non le rendiamo credibili e non ci rendiamo credibili e autorevoli agli occhi dei nostri ragazzi.

Ricordiamo che non siamo in una monarchia assoluta, dove dettiamo regole, ma siamo liberi di infrangerle perché ci sentiamo al di sopra della legge. Abbiamo visto che l’autoritarismo con gli adolescenti non funziona molto bene… meglio usare l’autorevolezza, che ricordatevi, viaggia di pari passo con l’amorevolezza. Spiegati ai vostri ragazzi il senso di queste regole e ascoltate cosa ne pensano e cosa hanno da dirvi. Ascoltateli.

Se l’autorevolezza serve per dettare regole sull’uso consapevole del digitale, l’amorevolezza introduce e accompagna la seconda dimensione della pedagogia della cura che è:

  1. L’educazione alle emozioni. L’educazione emotiva è alla base di ogni relazione ed è quella che ci permette di comprendere le nostre emozioni, riconoscerle e spiegarle a noi stessi e agli altri. Tutti abbiamo bisogno di educazione alle emozioni, dai bambini nei primi anni di vita, a noi adulti, che non siamo sempre bravi a gestire le nostre emozioni e a capire cosa ci sta succedendo e perché. Se non comprendiamo le nostre emozioni, le agiamo => ed ecco che la rabbia non compresa e ascoltata, viene riversata sull’altro con atti di violenza che possono sfociare in atti di bullismo, la tristezza, non capita e confidata a qualcuno che ci possa ascoltare e capire, diventa disperazione, che può portarci a gesti estremi, la vergogna, la paura, non comprese ed elaborate, possono diventare angoscia, attacchi di panico, che ci bloccano e non ci fanno ad esempio più uscire di casa, portandoci verso il ritiro sociale. Capire le nostre emozioni, cosa sentiamo, riuscire a dar loro un nome e un significato ci porta inoltre a compiere il passo successivo, ovvero comprendere le emozioni e il sentire dell’altro, diventando più empatici, più attenti alle parole che usiamo per cercare di non ferire chi ci sta vicino e meno disposti a prendere in giro una persona, perché sentiamo cosa prova.

Stefano Rossi, pedagogista molto autorevole nell’educazione emotiva, usa una metafora molto efficace: dobbiamo cercare di trasformare i sassi che portiamo nel cuore in parole. Perché se i sassi rimangono nel cuore, o li tiriamo addosso a chi ci è vicino, coetanei o adulti, perché ci fanno male, o se li teniamo dentro, ci portano a fondo.

Gli insegnanti, i genitori, gli educatori, cosa possono fare di concreto per arginare questo fenomeno e aiutare i ragazzi? Il dialogo è la prima e la più potente arma che abbiamo a disposizione: parlare, spiegare, ascoltare e cercare di comprendere, senza giudicare, senza rimanere rigidi sulle proprie posizioni. I ragazzi ci portano la loro realtà attraverso la loro storia formativa, le loro parole e le loro emozioni, che sicuramente sono diverse dalla nostra storia formativa, il nostro percorso e i nostri pensieri: apriamoci a loro, accettiamo la loro diversità, diventiamo più tolleranti, aperti al dialogo, a scenari e interpretazioni diverse di un problema. Anche se non comprendiamo a pieno i ragazzi, non sottovalutiamo, né svalutiamo mai le loro manifestazioni emotive e il loro sentire. Anche se a noi sembrano cose piccole, perché ci siamo già passati, per loro, in quel momento, sono difficoltà, problemi che sembrano insormontabili.

I ragazzi non cercano “i consiglioni degli adulti”, né nostre possibili soluzioni ai loro problemi (che per noi funzionano, ma magari per loro no, visto che loro sono altro da noi): cercano ascolto, comprensione, uno sguardo gentile e accogliente di un adulto pronto a sedersi al loro fianco e a dire loro “sono qui, vicino a te, ti ascolto”.

Proviamo a spostare il dialogo con i ragazzi da COSA al COME: da cos’hai fatto oggi a scuola? Cos’hai mangiato? => a come ti senti oggi? Come hai affrontato l’interrogazione? Deve essere stata difficile. Raccontami. Sentite come il tono freddo, impersonale, diventa caldo, accogliente?

Proviamo a trasformare le domande chiuse, a cui si risponde con un sì o un no e chiudono il dialogo, in domande aperte, maieutiche, che stimolano la riflessione e il dialogo. Passiamo da: hai fatto i compiti? Hai mangiato? Hai freddo? Sei stanco? Ti hanno interrogato? => a Com’è andata la tua giornata? Quale stato il momento più bello o più brutto? Vedo che giochi spesso con quel videogioco: perché ti piace tanto? Hai sentito quella notizia? Cosa ne pensi?

Non sempre si riesce ad agganciarli perché gli adolescenti non sempre hanno voglia di parale con glia adulti… ma magari, su nove volte in cui ci proviamo e non ci riusciamo, c’è quella volta in cui ci riusciamo, perché loro in quel momento si sentono più fragili e vulnerabili e allora possiamo davvero aiutarli standogli vicino.  Ovviamente, se iniziate un discorso, poi stateli ad ascoltare, senza guardare schermi o rispondere al telefono perché “è una chiamata importante” … in quel momento sono loro la chiamata importante a cui rispondere. Se volete potete aprirvi anche voi, condividendo un momento della vostra giornata con loro (senza riversar loro addosso tutte le vostre problematiche!)

In chiusura, ricordiamoci che siamo essere umani imperfetti, siamo genitori, insegnanti, educatori senza il libretto d’istruzione e senza aver ricevuto un’educazione digitale… non sentiamoci in colpa o inadeguati… Diamoci la possibilità di sbagliare, di non essere sempre presenti e sul pezzo, ma diamoci anche l’opportunità di migliorare, di diventare un punto di riferimento solido e stabile per i nostri ragazzi, la stella polare che illumina il loro cammino.

I MILLE VOLTI DELLA PEDAGOGIA (a cura di: Dott.ssa Sonia Marengo)

La pedagogia ha come oggetto di studio l’educazione, la formazione e l’istruzione culturale dell’uomo, in tutto il suo percorso di crescita formativa, dall’infanzia all’anzianità, perché non si smette mai di imparare e di formarsi. La pedagogia si occupa quindi della formazione, educazione e istruzione dell’essere umano e delle problematiche annesse a queste tre dimensioni.

Non c’è aspetto del mondo che non abbia un principio di pertinenza formativo, educativo, istruzionale. Tutto ci parla di formazione, istruzione ed educazione dell’uomo e tutto ci parla di principi deformativi e diseducativi.

Il pedagogista oggi è una figura professionale polivalente che può lavorare davvero in moltissimi ambiti differenti. Secondo l’ANPE (Associazione Nazionale Pedagogisti), il profilo professionale del pedagogista si delinea su più ambiti d’intervento:

  • L’esercizio della professione di pedagogista comprende l’uso di strumenti conoscitivi, metodologici e di intervento per la valutazione ed il trattamento dei disagi manifestati dalle persone nei processi di apprendimento e/o di formazione-educazione. (BES, DSA, disabilità,ecc…)
  • Il pedagogista opera per la promozione, la progettazione, la gestione e la verifica di interventi in campo educativo e formativo rivolti alla persona, alla coppia, alla famiglia, al gruppo e alla comunità in generale.
  • Il pedagogista può svolgere, presso le Pubbliche Amministrazioni, nei servizi pubblici e privati e come libero professionista, compiti e funzioni di consulenza tecnico-scientifica e attività di coordinamento, di direzione, di monitoraggio e di supervisione degli interventi a valenza educativa, formativa e pedagogica nei settori di competenza.
  • Può svolgere attività di orientamento scolastico e professionale, di attività di promozione culturale e interculturale anche attraverso l’organizzazione d’iniziative tecnico-scientifiche, la produzione e diffusione di pubblicazioni, l’allestimento la consulenza e l’aggiornamento di siti specialistici e lo svolgimento di consulenza on-line.
  • Il pedagogista svolge attività didattica, sperimentazione e ricerca nello specifico ambito professionale.
  • Il pedagogista esercita la sua professione nel rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti con l’assunzione di responsabilità dei propri atti.

Il Pedagogista, considerati i settori di competenza, può svolgere quindi la sua prestazione professionale come dipendente in: Scuole, Enti pubblici locali, Servizi del Ministero della Giustizia, Università, Aziende, Imprese, Enti e cooperative del privato sociale. Può altresì svolgere attività di libero professionista presso studi privati o in collaborazione con Enti Pubblici e Privati.

Il pedagogista lavora con l’essere umano al fine di migliorare le sue condizioni di vita, per quanto concerne il proprio ambito lavorativo, ovvero istruzione, formazione e educazione e quando questi componenti subiscono un processo di destabilizzazione.

E’ importante ricordare che il pedagogista NON è uno psicologo, psicanalista o psicoterapeuta. La psicanalisi, ad esempio, è la scienza dell’interpretazione del pensiero; il pedagogista clinico, non interpreta, né educa il pensiero del soggetto , ma educa il soggetto a pensarsi in chiave educativa. Anche il pedagogista clinico, nella relazione della consulenza, si educa: entrambi i soggetti si educano reciprocamente, rispettando  la relazione asimmetrica.

Psicologia vuol dire logos sulla psuché, ovvero dialogo sull’anima come sede dell’intelligenza. Ma deriva anche da un’altra parola greca: tsumos, ovvero animo, come sede delle passioni. L’uomo è espressione di intelligenza e passioni. E’ interessante vedere come queste due dimensioni che studia la psicologia, intervengano anche nei processi formativi ed educativi che riguardano la pedagogia. C’è sempre un punto di incontro fra saperi differenti ed è proprio lì che nasce lo scambio e la collaborazione che arricchiscono sia i professionisti che i soggetti.

E’ quindi importante, secondo il mio parere, collaborare insieme in un’ottica di multidisciplinarietà. Ogni scienza infatti, possiede la propria autonomia epistemologica, il proprio impianto teorico, ma si arricchisce anche del contributo proveniente da altre scienze. Solamente nel dialogo fra saperi differenti ogni scienza può migliorare e potenziare la propria attività di ricerca e ampliamento delle conoscenze e questo vale per tutte le scienze: naturali, sociali, umanistiche, economiche, ecc…

IL CERVELLO DEGLI ADOLESCENTI (a cura di: Dott.ssa Sonia Marengo)

Cose da sapere per comprendere meglio i nostri ragazzi

Chi ha avuto a che fare con un adolescente lo sa: comunicare con loro è spesso faticoso e talvolta irritante. Sembra che non stiano ad ascoltare quello che diciamo, non rispondono alle nostre domande, si scocciano subito appena apriamo bocca, quando li chiamiamo per studiare o perché la cena è in tavola, rispondono con un laconico: ”Arrivo subito!” e compaiono solo dopo che strilliamo per l’ennesima volta, quasi fossero caduti in un buco nero dimensionale dal quale riemergono dicendo: “eccomi, ti ho detto che arrivavo, cos’hai da strillare?!”

Questi sono solo alcuni esempi di comunicazione infruttuosa che avvengono quotidianamente in famiglia. Ma prima di perdere definitivamente la pazienza, vorrei spiegarvi alcune cose, che in parte li giustificano e che sapendole, ci evitano di farci arrabbiare troppo.

Prima di tutto dobbiamo sapere che la mente dei nostri ragazzi è ancora un cervello in costruzione. Le neuroscienze oggi ci raccontano che la struttura cerebrale non è statica e non dipende solo dal bagaglio genetico di ognuno di noi, ma anche delle esperienze vissute, dall’ambiente (interno e esterno), dagli apprendimenti. Le sinapsi si modificano per tutta la durata della nostra vita, e quindi possiamo dire che il nostro cervello non smette mai di mutare e maturare.

La NEUROPLASTICITA’ è una delle caratteristiche più importanti del nostro cervello ed è la capacità di modificare la propria struttura (modificando le sinapsi) sulla base delle sollecitazioni che provengono dall’ambiente.

Nel cervello di un adolescente nello specifico avvengono diversi fenomeni:

  • POTATURA: alcune connessioni sinaptiche utilizzate da bambino, se non servono più vengono “tagliate” (come vengono potati i rami secchi) e se ne creano altre nuove, stimolate dall’ambiente e dall’apprendimento. Questa è una delle caratteristiche della neuroplasticità di cui ho parlato prima, che porta l’adolescente ad un nuovo processo di individuazione.
  • Iperattivazione del SISTEMA LIMBICO (sede delle emozioni): nell’adolescenza spesso tutto diventa tanto, tutto diventa esagerato, ogni emozione viene ampliata e si passa da momenti di euforia in cui è tutto bello a momenti di depressione in cui la vita fa schifo.
  • MIELINIZZAZIONE delle fibre nervose: mentre il corpo cresce, crescono anche le fibre nervose attraverso cui passano gli impulsi nervosi e quindi le informazioni che arrivano e partono dal cervello. Queste fibre nervose sono ricoperte da una sostanza chiamata “mielina” che le riveste e le protegge (come il rivestimento di plastica che ricopre i cavi elettrici). In adolescenza, è possibile che, mentre queste fibre vengono rivestite e aumenta la densità della mielina, alcune rimangano temporaneamente scoperte e questo causa un funzionamento irregolare, con una dispersione dell’informazione in entrata e in uscita. Noi ci accorgiamo di questo fenomeno quando ogni tanto facciamo delle domande ad un adolescente e lui non ci risponde subito, come se rimanesse per un attimo imbambolato, oppure quando loro ci parlano e improvvisamente interrompono la frase a metà e noi li guardiamo un po’ dubbiosi chiedendoci: ma avrà capito, avrà dei problemi o sta semplicemente pensando ai fatti suoi?
  • Rilascio eccessivo di DOPAMINA nelle situazioni eccitanti. La dopamina è, in parole semplici, l’ormone che ci fa stare bene. È un neurotrasmettitore implicato nel sistema dopaminergico che reagisce nelle situazioni gratificanti (es: mi diverto a chattare con gli amici o a videogiocare e non voglio più smettere, anche se dovrei studiare). Può essere coinvolto anche nelle situazioni di dipendenza da videogiochi, da digitale, da alcool e droghe, ecc.…
  • CORTECCIA PREFRONTALE non ancora matura. La corteccia prefrontale è un’area del cervello molto importante, sede delle funzioni cognitive di alto livello (es: controllo delle emozioni, autoregolazione, pianificazione, ecc.…) e che arriva al termine della sua maturazione intorno ai 20-25 anni. La corteccia frontale è quella che ci distingue dai primati e che può inibire, ad esempio, comportamenti inadeguati o rischiosi. Per un adolescente è difficile quindi pianificare lo studio, fare progetti per il futuro, regolare le emozioni, ecc… queste competenze arriveranno, ma vanno gradualmente allenate.

A volte i ragazzi si perdono nei loro pensieri o sono in balìa delle emozioni: questo accade perché la corteccia prefrontale non è ancora del tutto sviluppata, sono in preda all’iperattivazione del sistema limbico e non riescono ad autoregolarsi.

F.E. Jensen, nel suo libro “Il cervello degli adolescenti” scrive: “la parte più importante dell’encefalo umano, l’area dove si soppesano le azioni, si giudicano le situazioni, si prendono decisioni, è nei lobi frontali. È l’ultima regione cerebrale a svilupparsi ed è per questo che dovete essere voi i lobi frontali dei vostri figli finché il loro cervello non sia completamente connesso, collegato e pronto a funzionare per conto suo”.

La corteccia prefrontale non ancora del tutto sviluppata porta quindi a:

  • EMOZIONI INTENSE
  • COMPORTAMENTI IMPREVEDIBILI
  • RICERCA DI GRATIFICAZIONI IMMEDIATE (giocare con i videogiochi tutto il giorno, chattare fino alle 3 di notte perché mi fa piacere, ecc.…)
  • SCARSO CONTROLLO E SCARSA CAPACITA’ DI ORGANIZZARSI E DI PIANIFICARE
  • GRANDE CREATIVITA’ (va compresa, riconosciuta e sostenuta, per far modo che diventi uno strumento di crescita)

L’adolescenza è l’epoca dell’apprendimento. Le competenze cognitive e il potenziale di apprendimento è altissimo, ma spesso compromesso da iper-emotività e maggiore spinta verso stimoli gratificanti. Le emozioni forti possono causare un corto circuito perché nella preadolescenza e adolescenza abbiamo un disallineamento fra cervello emotivo e cervello cognitivo.

Non bisogna mai etichettare gli adolescenti, mai darli per spacciati, irrecuperabili: il cervello può sempre modificare, dipende dalle esperienze che il ragazzo vive.

Il cervello di un adolescente è UNICO!! Non dobbiamo cadere nell’errore di patologizzare senza motivo i ragazzi. L’irregolarità dei loro comportamenti, non è devianza, ma normalità.

La sfida che dobbiamo raccogliere come adulti è quella di essere solidi, aperti al dialogo e alla comprensione, attivando la consapevolezza che quello che capita nella vita può essere motivo di apprendimento. Il cervello dei ragazzi è plastico, si modifica e trasforma in risposta all’ambiente, generando nuove competenze. Il loro cervello è inoltre costantemente polarizzato fra rischio e opportunità, fra criticità e risorse ed è quindi fondamentale la presenza di un adulto “porto sicuro” che lo sappia accogliere, comprendere, ascoltare e guidare nel mare della vita, finché non sia pronto a navigare da solo.

BIBLIOGRAFIA:

  1. F.E. Jensen “Il cervello degli adolescenti”
  2. S. Rossi “Mio figlio è un casino”
  3. Webinar del CPPP (Centro Psicopedagogico per la Pace) Daniele Danovara

COS’E’ LA PEDAGOGIA CLINICA? (a cura di: Dott.ssa Sonia Marengo)

Oggi la pedagogia ha come oggetto di studio l’educazione, la formazione e l’istruzione culturale dell’uomo, in tutto il suo percorso di crescita formativa, dall’infanzia all’anzianità, perché, a pensarci bene, non si smette mai di imparare e di formarsi. La pedagogia si occupa quindi della formazione, educazione e istruzione dell’essere umano, mentre la pedagogia clinica si occupa delle problematiche annesse e delle difficoltà correlate a queste tre dimensioni.

Ogni esperienza, come ad esempio un film, un libro, una gita, un incontro con una persona, un racconto, un video, ecc.… può insegnarci qualcosa e diventare occasione di crescita formativa. Dipende da come noi la viviamo e quale significato le diamo.

Grazie alle persone che ci educano e ci istruiscono, noi costruiamo la nostra storia formativa, che ci dà forma e ci trasforma, a cui aggiungiamo momenti formativi personali lungo tutto il nostro percorso di vita. Importante comprendere che, mentre nei processi di educazione e di istruzione esiste sempre una relazione fra chi educa e chi viene educato, la formazione è un percorso strettamente personale e unico, perché è il soggetto stesso che decide se trasformare un’esperienza in un momento formativo oppure no.

Noi siamo nel mondo, e ognuno ha un suo mondo che si rapporta ad altri mondi e come lo facciamo o non lo facciamo può essere un problema pedagogico clinico.

Nella vita possono accadere anche eventi traumatici o dolorosi che invece di formarci, ci de-formano, ovvero ci depotenziano, bloccano la nostra crescita formativa e ci costringono in uno stato di stallo in cui facciamo fatica a pensare e a reagire, ci sentiamo a disagio, spaesati e non ci riconosciamo più. In generale spesso usiamo la frase – sono in crisi – a cui non riusciamo però a dare bene un significato. Parlo in generale di un soggetto che si sente in un periodo di crisi e non è soddisfatto né felice di se stesso e non esce ad avere rapporti armonici con se stesso e con altri (famiglia, amici, fidanzati). Non si parla di patologie gravi, problematicità specifiche (dipendenze, anoressia, depressione, ecc.…), soggetti affetti da patologie, per i quali è importante rivolgersi al professionista più competente, ma si parla di soggetti che avvertono di essere in uno stato di crisi.

In queste situazioni può essere d’aiuto la figura del pedagogista clinico che, in seduta, utilizzando come strumenti il dialogo e il pensiero, attraverso la creazione di reti categoriali, lavora con il soggetto e lo aiuta a togliersi dallo stato di stallo e a ri-pensarsi, riuscendo a trasformare il momento di crisi de-formativa, in un nuovo momento formativo, da cui ripartire, dando una nuova forma al proprio essere.

Il pedagogista lavora con l’essere umano per migliorare le sue condizioni di vita, per quanto concerne il proprio ambito lavorativo, ovvero l’educazione, la formazione e l’istruzione culturale e quando questi componenti subiscono un processo di destabilizzazione e deformazione.

Le sedute hanno una durata limitata nel tempo e hanno come scopo quello di riportare il soggetto in uno stato attivo e formativo, dove sia nuovamente in grado di pensare se stesso e a se stesso, a prendersi cura di sé e della propria formazione.

Il pedagogista lavora con il soggetto affinché il soggetto, attraverso una relazione educativa, venga educato a pensarsi alla luce di categorie pedagogiche che permettano di girare intorno al suo problema che lo sta facendo stare male, in crisi, e educarsi lui stesso a riconosce qual è il suo problema. Quando lo riconosce il processo della consulenza pedagogica è avviato alla sua risoluzione.

Oggi è difficile portare avanti discussioni formative, manca un ’educazione a confrontare punti di vista diversi. Non dobbiamo avere un dubbio scettico, diffidente, ma un dubbio che porta al pensare un pensiero che si apre alle possibilità altre.

Il pedagogista clinico educa il soggetto all’indipendenza dal professionista che gli sta facendo la consulenza perché la consulenza educa il soggetto ad un’autonomia del pensiero. La consulenza emancipa il soggetto dal bisogno di dipendere da qualcun altro per interpretare se stesso.